«Sapete dov'è l'Italia?», chiesi ai due bambini che si erano avvicinati cercando di scroccarmi le noccioline. La più piccola, timida, guardò suo fratello maggiore, che sembrava avere al massimo un paio d'anni in più di lei. Lei non sapeva la risposta, ma lui rispose con orgoglio e determinazione: «Bisogna andare fino a Puyo, poi da lì a Quito e dopo un po' c'è l'Italia.» Confermai che la sua risposta era corretta. Con le mani tese, chiesero altre noccioline, attratti dai prodotti zuccherati che lì arrivavano solo grazie ai turisti come me. Decisi di darne una montagnetta a ciascuno.
Il ragazzino mi chiese il nome di mia madre e mi disse che anche sua madre si chiamava allo stesso modo. Poi aggiunse che suo padre si chiamava Wankam Manari Pachamakin, o qualcosa del genere. Non gli feci notare che con un nome del genere sembrava strano che sua madre si chiamasse davvero Rita. Per celebrare questa incredibile coincidenza, versai loro altre noccioline.
Proseguì la conversazione chiedendo loro se i disegni sui loro visi fossero come dei tatuaggi tribali. Il bimbo, scoprendomi la manica della maglietta, mi rispose senza mezzi termini che i tatuaggi erano peccato. Per stemperare la conversazione, cercai nella busta delle noccioline alcuni rari pezzi di cioccolato e mi feci subito perdonare. Lui decise di scattare una foto a me e sua sorella, ma lo vidi impugnare la macchina fotografica al contrario. Gliela girai e scattò una foto sfocata. Non sembrò molto interessato a correggerla, così come non sembrava troppo interessato a me. Il gioco era semplice: tenere una conversazione con il turista finché le noccioline non saranno finite. Ed erano quasi finite.
Fecero in tempo a raccontarmi che c'era una partita di calcio ogni giorno al tramonto, che sapevano fare i tuffi nel fiume e che andavano a scuola lì vicino. Poi, appena un adulto della comunità si avvicinò a me per scambiare quattro chiacchiere, i due bambini ne approfittarono per scappare via con il pacco di noccioline in mano, e li vidi correre da dietro in direzione del fiume.
L'uomo era vestito con jeans moderni e una camicia chiara, si avvicinò e mi strinse la mano. Si presentò come il proprietario di quelle terre e mi diede il benvenuto nella comunità. Dall'aspetto, potevo intuire che coloro che giravano con il petto scoperto e collane fatte di pietre e ossa lo facevano per scopi ornamentali legati al turismo, e che la vicinanza alla città aveva inevitabilmente influenzato il loro stile di vita. Tuttavia, non completamente.
Mi spiegò che lungo le rive del fiume Puyo c'erano 38 comunità, ognuna organizzata in piccoli villaggi che si sostenevano attraverso l'agricoltura, la pesca e le attività legate ai turisti, i quali arrivavano per lo più dalla capitale per tour giornalieri. La trasformazione di queste comunità era inevitabile, ma tutti avevano compreso che per preservare le loro tradizioni era necessario trovare un compromesso.
Tuttavia, erano preoccupati per le condizioni del loro fiume, a causa delle rilevazioni di alcune organizzazioni locali che avevano rivelato l'inquinamento causato dalle attività industriali nella moderna città di Puyo, nelle vicinanze. Così avevano convocato i politici locali e in quel momento stava svolgendosi una conferenza nella maloca, il più grande edificio del villaggio, in cui prendevano la parola i rappresentanti di tutte le comunità. Il proprietario mi disse che c'era speranza, soprattutto dopo il risultato storico di un recente referendum che aveva permesso di fermare lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi all'interno del Parco Nazionale Yasuni. Si trattava di un incredibile precedente.
All'improvviso, sentimmo un forte rumore provenire dall'enorme ponte di ferro che fungeva da accesso alla comunità. I bambini con cui avevo parlato in precedenza stavano tornando correndo verso il villaggio, bagnati e in mutande, dopo un tuffo nel fiume. Uno di loro, con un sorriso sfacciato, agitava il pacco vuoto di noccioline che gli avevo regalato. Si fermò di fronte a me e, come se non bastasse, mi chiese se ne avevo un altro.